L’espressione “buddhismo socialmente impegnato” si riferisce al coinvolgimento attivo dei buddhisti nella società e nella risoluzione dei suoi problemi. I partecipanti a questo movimento cercano di mettere in pratica concretamente gli ideali tradizionali del buddismo – saggezza e compassione – nel mondo contemporaneo.
Tavolta il buddhismo è stato considerato un po’ passivo, ultraterreno, distaccato tanto che la sua manifestazione “impegnata” può inizialmente sembrare una contraddizione in termini.
Non è forse una delle caratteristiche distintive del buddhismo la trasformazione interiore personale? Il punto di vista di molti buddhisti socialmente impegnati è “che nessuna illuminazione può essere completa finché qualcuno rimane intrappolato nell’ignoranza” e che “la vera saggezza si manifesta nell’azione compassionevole“. (Kenneth Kraft, The Wheel of Engaged Buddhism: A New Map of the Path, 1985)
Inoltre, i buddhisti impegnati che hanno contribuito al libro The Path of Compassion: Writings on Socially Engaged Buddhism (Eppsteiner, 1985), hanno messo in luce, nel riesaminare l’eredità di 2500 anni di Buddhismo, che “i principi e persino alcune delle tecniche di buddhismo impegnato sono rimasti per così dire latenti nella tradizione fin dai tempi del suo fondatore. Questi aspetti, tralasciati in contesti asiatici pre-moderni, possono tuttavia trovare la loro applicazione con la diffusione del Buddhismo in Occidente, dove la sensibilità etica, l’attivismo sociale e l’egualitarismo sono profondamente radicati” (Kraft, 1985, ibidem).
Secondo Philip Kapleau, un insegnante Zen americano:
“Un compito importante per il buddhismo in Occidente è quello di fare rete con quelle organizzazioni – laiche o di orientamento religioso – che hanno come scopo prevenire le potenziali catastrofi che minacciano l’umanità: l’olocausto nucleare, l’inquinamento irreversibile dell’ambiente, la continua distruzione su larga scala di risorse non rinnovabili. Dobbiamo anche dare il nostro sostegno concreto e morale a coloro che combattono la fame, la povertà e l’oppressione nel mondo”.
(Kapleau, 1983, p.26.)
Secondo altri commentatori buddhisti, invece, intraprendere un’azione sociale immediata è piuttosto inutile perché soltanto un cambiamento massiccio e diffuso nella coscienza umana potrà significativamente ridurre la sofferenza nel mondo. Prendiamo ad esempio le parole di Ayya Khema sulla pace nel mondo:
“Ogni essere pensante si lamenta del fatto che non c’è pace tra le nazioni. Tutti vorrebbero vedere la pace. Ma la pace ancora non c’è. Nel XX secolo c’è sempre stata una guerra da qualche. Ogni Paese dispone di un enorme arsenale di difesa per il quale si utilizzano molte energie, denaro e manodopera. Questo sistema di difesa si trasforma immediatamente in un sistema di attacco non appena qualcuno fa una minima osservazione ostile o sembra muoversi verso un’invasione dello spazio aereo o delle acque territoriali del tal Paese. Questo fatto viene giustificato con affermazioni del tipo: “Dobbiamo difendere i confine del nostro Paese per proteggere il nostro popolo”.
Il disarmo è quindi una speranza e una preghiera, ma non ancora una realtà.
E perché? Perché il disarmo deve iniziare nel cuore di tutti o il disarmo mondiale non avverrà mai. La difesa e l’attacco che avvengono su larga scala si verificano costantemente dentro ciascuno di noi.
Difendiamo costantemente la nostra immagine. Se qualcuno ci guarda di traverso, ci muove una critica,o non ci apprezza o non ci ama abbastanza, o addirittura ci incolpa, la difesa si trasforma in attacco. La logica è che dobbiamo difendere il nostro ego e poiché quasi ogni persona al mondo agisce in questo modo, tutte le nazioni si comportano di conseguenza.
Non c’è speranza in un reale cambiamento, a meno che non cambi ogni singolo essere umano. Quindi spetta a ciascuno di noi lavorare per la propria pace interiore. Questo potrà accadere soltanto se ogni ego viene in qualche modo ridimensionato e l’ego diminuisce solo quando vediamo con spietata onestà ciò che sta succedendo dentro di noi”.
(Khema, 1987, pp 46-47)
In netto contrasto con questo approccio, Fred Eppsteiner della Buddhist Peace Fellowship ha così commentato il quarto precetto dell’ordine buddhista “Tiep Hien” che recita “Non evitare il contatto con la sofferenza, non voltarti dall’altra parte. Non perdete la consapevolezza dell’esistenza della sofferenza nel mondo. Trova il modo di stare con coloro che soffrono con tutti i mezzi, compresi il contatto personale e le visite, le immagini, i suoni. Con tali mezzi, risveglia te stesso e gli altri alla realtà della sofferenza nel mondo“.
“Il quarto precetto va dritto al cuore della compassione buddhista e lancia una sfida a tutti i praticanti. È sufficiente praticare il Dharma formale affinché un giorno, in futuro, potremo essere in grado di aiutare tutti gli esseri viventi? O, piuttosto, la sofferenza di questi esseri può diminuire attraverso il nostro coinvolgimento compassionevole nel presente? Questo precetto sembra implicare che le riflessioni contemplative sulla sofferenza degli esseri senzienti da sole non siano sufficienti e che il loto può crescere solo se piantato in profondità nel fango”.
Eppsteiner continua ricordando che “un monaco vietnamita parlandogli di di Kuan-Yin (Avalokiteshvara o Cenrezig, ndt) , il Bodhisattva della Compassione, gli aveva fatto notare che le persone pensano erroneamente che l’unico modo per dimostrare devozione sia mettere le offerte davanti alla sua immagine e pregare. E’ davvero questo il meglio che sappiamo fare?” (Fred Eppsteiner in Thich Nhat Hanh, 1987b,p.6) .
Nel libro “Seeking the Heart of Wisdom”, Joseph Goldstein e Jack Kornfield suggeriscono che sia la pratica interiore sia il servizio sociale sono elementi importanti del percorso spirituale. “Il Vipassana in Occidente” dicono “ha posto una grande enfasi sulla meditazione interiore e sulla trasformazione individuale, ma gli insegnamenti buddhisti hanno anche un’altra dimensione, un modo di collegare i nostri cuori al mondo dell’azione”.
Le prime linee guida universali insegnano i precetti morali e la coltivazione della generosità. Queste sono le fondamenta di ogni sentiero spirituale. Al di là di questo, la pratica buddhista e tutta l’antica tradizione asiatica è costruita sullo spirito di servizio. Per alcuni, il servizio può sembrare semplicemente un’aggiunta alla meditazione. Ma il servizio è molto più di questo: è un’espressione della saggezza acquisita attraverso la pratica spirituale formale. La comprensione di questo spirito di servizio e di interconnessione cresce man mano che la nostra saggezza si approfondisce”. ( Golstein & Kornfield, 1987, p 165 ).
In conclusione: il Buddhismo è mai stato socialmente disimpegnato?
Non è corretto etichettare il buddhismo come “impegnato” o “disimpegnato”: c’è semplicemente il buddhismo che è per sua stessa natura “impegnato”.
Il Venerabile Thich Quang Ba ha dato risalto alla natura intrinsecamente “impegnata” del buddhismo e al fatto che “il buddhismo impegnato” non è neppure un’innovazione recente. A sostegno di questo suo punto di vista ha fatto le seguenti osservazioni: in primo luogo, cè il ruolo essenziale dell’interdipendenza nella filosofia buddhista, che naturalmente predispone il buddhismo all’impegno sociale.
In secondo luogo, nella vita del Buddha, pochissimi Bikkhu hanno chiesto o ottenuto il permesso di vivere vite solitarie, al contrario la maggior parte di loro era profondamente impegnata nei propri villaggi.
In terzo luogo, siamo costantemente impegnati nella vita. E’ estremamente difficile essere disimpegnati dalla vita e quindi ciò che davvero conta è come ci impegniamo nella vita da buddhisti.
In quarto luogo, le età d’oro del buddhismo in India, Cina e Vietnam forniscono esempi significativi di buddhismo socialmente impegnato. In altre parole, Thich Nhat Hanh ha coniato e reso popolare il termine “buddhismo socialmente impegnato” dandone un’enfasi speciale nella pratica insegnata agli Occidentali, ma di certo non si è inventato nulla di nuvo (Brown, 1992).
Ma è proprio questa enfasi sul sociale che può avere un fascino particolare per i praticanti occidentali che non sono generalmente interessati alla vita monastica o contemplativa quanto invece lo sono rispetto alla pratica della meditazione individuale e alle questioni umanitarie e ambientali contemporanee.
Concludiamo con le parole del buddhista socialmente impegnato più famoso del mondo, Tenzin Gyatso, il XIV° Dalai Lama:
“Ognuno di noi ha la responsabilità di tutta l’umanità. E’ tempo di pensare agli altri come veri fratelli e sorelle e di preoccuparsi del loro benessere, riducendo le loro sofferenze. Anche se non si può sacrificare interamente il proprio interesse e beneficio personale, non si devono dimenticare le preoccupazioni degli altri. Dovremmo pensare di più al futuro e al benessere di tutta l’umanità”
(Tenzin Gyatso in Eppsteiner, 1985, p. 8).
Philip Russell Brown – Tratto e tradotto da Socially Engaged Buddhism:
A Buddhist Practice for the West