Il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è il leader spirituale del Tibet. Il suo libro “Voice of voiceless: Over Seven Decades of Struggle With China for My Land and My People” sarà pubblicato martedì 11 marzo.
Un ruolo importante nella mia vita, dall’età di 16 anni, è stato quello di guidare una nazione e il suo popolo. Sono stato riconosciuto come il XIV Dalai Lama all’età di 2 anni e, dopo l’invasione del mio Paese da parte delle forze della Cina comunista nel 1950, sono stato chiamato ad assumere la leadership formale. Da quel momento, tutta la mia vita adulta è stata lo specchio del tragico destino del Tibet e del suo popolo.
Per quasi nove anni dopo l’invasione, ho cercato di trovare una sorta di accordo; mi sono recato a Pechino per incontrare il presidente Mao Zedong. Purtroppo, nonostante le sue parole di rassicurazione – anche se ciò che mi sussurrò sulla religione come veleno mi sconvolse – di salvare il Tibet e il popolo tibetano rimanendo all’interno del Paese si rivelò impossibile. Il 10 marzo 1959, a Lhasa, la capitale, il popolo tibetano spontaneamente si ribellò. Pochi giorni dopo, il 17 marzo 1959, nell’oscurità di una notte gelida, lasciai la città, dando così inizio a più di sei decenni di esilio. Da allora, insieme a più di 100.000 tibetani, l’India è la mia casa.
Sono passati quasi 75 anni dall’invasione della Cina e questo marzo segna 66 anni dalla mia fuga. I tibetani all’interno del Tibet continuano a essere privati della loro dignità come popolo e della libertà di vivere secondo i propri desideri e la propria cultura, come avevano fatto per più di un millennio prima del 1950. Da allora, anche la Repubblica Popolare Cinese ha vissuto drammatici cambiamenti. Con la svolta di Deng Xiaoping verso il capitalismo e l’apertura al mondo, oggi la Cina è una super potenza economica. Naturalmente, dal potere economico derivano potenza militare e influenza sulla politica internazionale. Il modo in cui quel Paese eserciterà questi poteri nei prossimi anni traccerà la strada del prossimo futuro. Sceglierà quella del dominio e dell’aggressione, sia interna che esterna? Oppure quella della responsabilità, assumendo un ruolo di guida costruttiva nello scenario mondiale?
Quest’ultima strada sarebbe nell’interesse non solo del mondo intero, ma anche dello stesso popolo cinese. In sostanza, si tratta del cuore stesso della Cina come Paese e del suo popolo. A questo proposito, credo che risolvere l’annoso problema del Tibet attraverso il dialogo rappresenterebbe un segnale potente, sia per il suo popolo che per il mondo. La leadership cinese dovrebbe avere una visione a lungo termine, coraggio e magnanimità.
Da parte mia, fin dall’inizio, ho insistito con il mio popolo perché la nostra lotta si attenesse rigorosamente ai principi della nonviolenza. La violenza porta altra violenza; anche se a volte porta a qualche soluzione temporanea, getta comunque i semi per la violenza futura. Fin dall’inizio degli anni Settanta, sono riuscito a convincere il mio popolo che una soluzione duratura al nostro problema può essere trovata solo prendendo in considerazione le esigenze e le preoccupazioni di entrambe le parti, sforzandoci di trovare un compromesso reciprocamente accettabile. Ciò che conta di più per Pechino è l’integrità territoriale della Repubblica Popolare Cinese, mentre ciò che conta di più per noi tibetani è la possibilità di sopravvivere come popolo con la nostra identità, lingua e cultura sull’altopiano tibetano. Nonostante lo status storico del Tibet, ho creduto – e credo tuttora – che con la volontà politica della leadership di Pechino, il popolo tibetano possa prosperare con la propria identità, la propria lingua e cultura distinte sull’Altopiano tibetano, pur rimanendo all’interno della Repubblica Popolare Cinese.
Ci sono stati tre periodi di intenso dialogo con Pechino nel nostro tentativo di risolvere la questione del Tibet: negli anni Cinquanta, quando ero un giovane leader in Tibet; negli anni Ottanta, quando Deng Xiaoping aprì la Cina; e nel primo decennio di questo secolo, soprattutto nel periodo che ha preceduto le Olimpiadi estive del 2008 a Pechino. Ho fatto del mio meglio, senza sosta, per creare occasioni per una soluzione negoziale con Pechino. In effetti, attraverso i miei inviati, ho presentato a Pechino una road map che delinea le modalità per raggiungere una risoluzione reciprocamente soddisfacente. La nostra è una lotta esistenziale: è in gioco la sopravvivenza stessa di un popolo antico e della sua cultura, lingua e religione. Il popolo tibetano non ha altra scelta se non quella di persistere nella nostra giusta lotta.
Personalmente, anche se apolide, sento di aver vissuto con libertà, gioia e scopo e di aver potuto dare un contributo al miglioramento dell’umanità. A luglio compirò 90 anni e, anche se nel 2011 ho trasmesso completamente la mia autorità politica alla leadership tibetana democraticamente eletta, molti tibetani sono preoccupati per ciò che accadrà al mio popolo e alla mia patria se non si troverà una soluzione mentre sono ancora vivo. Oggi, sempre più qualsiasi espressione identitaria tibetana sembra essere vista dalla leadership di Pechino come una minaccia, corriamo il pericolo che, in nome della “stabilità” e dell’“integrità territoriale”, si cerchi di cancellare la nostra civiltà. Poiché la nostra è la lotta di un popolo con una lunga storia di civiltà, essa continuerà, se necessario, oltre la mia vita. Lo spirito indomito e la resilienza dei tibetani, in particolare all’interno del Tibet, rimangono per me una fonte di ispirazione e di incoraggiamento.
Lunedì i tibetani di tutto il mondo libero commemoreranno il 66° anniversario della rivolta del popolo tibetano a Lhasa. Il diritto del popolo tibetano di essere il custode della propria patria non può essere negato all’infinito, né la sua aspirazione alla libertà schiacciata per sempre.
C’è una lezione la storia ci insegna chiaramente: se si mantiene la gente perennemente infelice, non si può avere una società stabile. Spero che la leadership di Pechino, nel prossimo futuro, trovi la volontà e la saggezza necessarie per rispondere alle legittime aspirazioni del popolo tibetano. A tutti coloro che sono stati costantemente al nostro fianco, in particolare al popolo e al governo dell’India, va il mio ringraziamento per la solidarietà dimostrata nella nostra lunga e pacifica lotta per la libertà.
Tradotto da The Dalai Lama: My hope for the Tibetan people, The Washington Post, 6 marzo 2025