Ricordando Palden Gyatso, oceano glorioso

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Palden Gyatso è stato un monaco buddhista tibetano che ha sfidato la dittatura cinese sulla sua patria e poi è riuscito a fuggire di prigione per raccontare al mondo la sua storia di oltre tre decenni di privazioni nelle carceri e nei campi di lavoro cinesi, è morto il 30 novembre 2018, a Dharamsala, in India, a 85 anni.

La voce soave di Palden Gyatso è diventata una delle più forti contro il continuo controllo di Pechino sul Tibet dopo che la Cina l’ha occupato nel 1950, sconfiggendo l’esercito tibetano e dando inizio a quella che molti tibetani considerano una lunga e brutale occupazione.

Il Partito Comunista Cinese ha sostenuto che il Tibet è stato a lungo una parte culturalmente distinta della Cina. Ma nei quasi sette decenni trascorsi dall’occupazione, la Cina ha mantenuto il controllo sui monasteri tibetani, distruggendone alcuni, e ha limitato crescenti aspetti della cultura tibetana, come la lingua tibetana, sostituita dal cinese a partire dalle scuole, e le pratiche religiose buddhiste.

La Cina ha sempre sostenuto che le notizie sulle violazioni dei diritti umani e sui campi di detenzione per gli “agitatori” politici sono infondate. Palden Gyatso però ha raccontato tutt’altra storia:

“Quando mi arrestarono, nel 1959, stavo studiando nel monastero di Drepung. Per estorcermi una confessione, i cinesi mi picchiavano dopo avermi sospeso legando e tirando le mie braccia all’indietro fino al soffitto. Sempre in questa posizione, appiccavano il fuoco per bruciarmi le dita dei piedi. Alcune volte buttavano tra le fiamme polvere di peperoncino, così tutto il corpo diventava incandescente e gli occhi sembravano brace. Il dolore più terribile arrivava dopo, quando dovevo andare all’aperto per fare i lavori forzati, mezzo cieco e con le piaghe ancora purulente. Tra noi, chi non moriva di tortura, moriva di stenti e fame. Mangiavamo un pugno di riso e una tazza di brodo. Dalla disperazione, mi è capitato di cucinare anche le suole delle mie scarpe”.

I suoi carcerieri facevano tirare gli aratri ai prigionieri politici come se fossero “yak umani” e poi li picchiavano quando erano troppo esausti per lavorare. Ha trascorso lunghi periodi incatenato alle caviglie e appeso per le braccia alle catene. Le guardie lo hanno picchiato con sbarre di metallo, frustato e scosso con pungoli per il bestiame. Una guardia gli ha conficcato un pungolo in gola, facendogli perdere i sensi e facendogli saltare molti denti. Tutto ciò che il Palden Gyatso avrebbe dovuto fare per porre fine a questo inferno era concordare con i suoi carcerieri cinesi che il Tibet era storicamente una parte della Cina e che tale doveva rimanere. “Naturalmente non avrei mai detto una cosa simile”, disse durante un’intervista rilasciata alla rivista Peace nel 1998.

Il governo cinese rilasciò Palden Gyatso nel 1992, in parte, come lui stesso dichiarò, grazie alle pressioni di gruppi come Amnesty International e alle proteste degli esuli tibetani.

Prima di essere rilasciato, contattò un amico fuori dalla prigione e gli chiese di corrompere un ufficiale per ottenere alcuni degli strumenti di tortura che erano stati usati su di lui. In ottobre lasciò il Tibet per l’India, con gli strumenti di tortura nascosti sotto i vestiti.

Condivise queste prove e raccontò la sua storia in occasione di proteste in tutto il mondo. Nel 1995 parlò davanti alla Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra e a una sottocommissione per i diritti umani della Camera dei Rappresentanti a Washington.

Due anni dopo pubblicò un libro di memorie, scritto e tradotto da Tsering Shakya, che successivamente ispirarono il film documentario “Fire Under the Snow” (2008), diretto da Makoto Sasa.

“Il suo senso di giustizia della nostra causa e la sua indignazione per ciò che è stato fatto a così tanti tibetani sono così urgenti che non si è mai fermato”, ha scritto il Dalai Lama nella prefazione al libro di memorie. “Dopo aver resistito per anni ai tentativi della Cina comunista di nasconderlo e piegarlo, ha colto l’opportunità di dire al mondo la verità sul Tibet”.

Ngodup, nome alla nascita di Palden Gyatso, era nel 1933 da una famiglia di pastori nel villaggio di Panam, nel Tibet meridionale. Suo padre era il capo villaggio e sua madre morì quando lui era ancora un bambino. All’età di 10 anni divenne monaco nel monastero di Gadong, dove ricevette il nome di Palden Gyatso, che significa “oceano glorioso”. A 18 anni completò la sua formazione presso il monastero di Drepung, alla periferia di Lhasa, la capitale del Tibet.

Fuggito dal Tibet dopo la prigionia si trasferì in esilio a Dharamsala, dove vive il Dalai Lama.

Anche se il governo cinese ha ammorbidito alcune restrizioni sulle pratiche religiose tibetane, ancora oggi i monasteri sono tenuti a dimostrare la loro fedeltà alla Repubblica Popolare Cinese e chiunque può essere arrestato se trovato in possesso di una fotografia o un ritratto del Dalai Lama.

La lunga prigionia di Palden Ghyatso è stata intervallata da brevi periodi di libertà, perché evaso o perché era stato temporaneamente rilasciato. In un caso, all’inizio degli anni ’80, fu catturato con una bandiera tibetana, scritti del Dalai Lama e materiale per realizzare manifesti che proclamavano un Tibet libero e questo lo ricondusse immediatamente dietro le sbarre.

“Non mi sono mai pentito di quello che ho fatto”, ha dichiarato alla rivista Dharma Life nel 1997. “Non ho affisso i manifesti per alleviare le mie sofferenze, ma per il bene del Tibet. L’intero paese era in prigione, quindi quello che succedeva a me non aveva alcuna importanza”.

“Se prendono il tuo corpo non fa niente, se s’impadroniscono della tua mente, allora sei davvero morto. A me veniva impedito di meditare ad alta voce o con mala e libri. Avevo sviluppato la mia voce interiore. Mentre mi torturavano recitavo un mantra. Cercavo di pensare al dolore del mondo intero. Il mio avrebbe impedito la sofferenza di altri esseri umani. Ho cercato anche spiegazioni nel karma. Nelle mie vite passate devo aver commesso azioni terribili”.

Oggi, a quattro anni dalla sua scomparsa, lo celebriamo ricordando quel che era solito rispondere a chi gli domandava qual fosse di che cosa ebbe più paura durante i trent’anni di tortura e detenzione: “La mia paura peggiore? Smettere di provare compassione per i miei aguzzini”.

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