Riconoscere la madre

Riconoscere la madre

Un canto esperienziale sulla visione della via di mezzo

Con il suo titolo tibetano tagur ama ngodzin, sottotitolato “un canto esperienziale sulla visione della via di mezzo”, “Riconoscere la madre” si distingue come un’opera di natura profondamente personale e lirica, che riflette l’esperienza diretta dell’autore nella realizzazione della visione buddhista, in particolare quella della scuola Madhyamaka.

Il testo si apre con un omaggio al guru spirituale, descritto come colui che rivela la meraviglia della natura dell’origine dipendente. In questi versi iniziali, Changkya Rölpai Dorjé esprime la sua gratitudine e la sua aspirazione perché il maestro risieda nel suo cuore mentre egli si appresta a comporre il testo. Segue la promessa di esprimere parole spontanee sulla vacuità e sull’origine dipendente, attingendo ai pensieri che affiorano nella sua mente.

Il cuore del poema è la metafora del “bambino lunatico” che, dopo aver perso la sua “vecchia madre” molto tempo fa, sta per rendersi conto per caso che lei è sempre stata con lui. In questa allegoria, il “bambino lunatico” rappresenta la mente che analizza il vuoto, mentre la “vecchia madre” simboleggia la mancanza di esistenza inerente, ovvero la vacuità stessa. La madre è definita “vecchia” perché la vacuità, sia quella della mente sia quella generale, esiste da tempo senza inizio. Tuttavia, poiché la mente che la analizza non ha compreso l’assenza di esistenza inerente fin dal principio, viene paragonata a un bambino “lunatico” a causa della sua fondamentale errata comprensione della realtà.

Il poema introduce anche la figura del “fratello”, che rappresenta l’origine dipendente. Questa serve come ragione che stabilisce la mancanza di esistenza inerente. L’origine dipendente è descritta come ciò che sussurra tranquillamente “è” e “non è”, alludendo alla natura paradossale della realtà ultima. Il mondo dualistico dei soggetti e degli oggetti è visto come il “sorriso gentile” della madre, una manifestazione della vacuità, mentre il ciclo di nascita e morte è descritto come le sue “parole ingannevoli”, poiché non esistono nel modo in cui appaiono.

La “madre non ingannevole” è la vacuità stessa, che esiste nel modo in cui appare a una mente che la realizza direttamente, senza discrepanza tra apparenza ed esistenza. L’autore esprime la speranza di essere salvato attraverso la realizzazione diretta della vacuità, che permette di superare la fondamentale errata comprensione della realtà e di eliminare tutte le emozioni afflittive. Viene sottolineato che, se le cose esistessero intrinsecamente, sarebbe impossibile superare i difetti, coltivare buone qualità e raggiungere la liberazione e l’illuminazione.

Il poema prosegue descrivendo questa inesprimibile madre che, pur non esistendo intrinsecamente in alcuna forma, appare in tutte le forme dell’apparenza convenzionale. Questo perché i fenomeni convenzionali, che sorgono in dipendenza, esistono all’interno del vuoto, essendo anch’essi vuoti di esistenza inerente. L’opera evidenzia la relazione speciale tra vuoto e apparenze convenzionali, un insegnamento unico della scuola Prasangika Madhyamaka, come indicato nel Sutra del Cuore con le parole: “La forma è vuoto. Il vuoto è forma”. Vengono anche menzionati Nagarjuna e Candrakirti, figure centrali nella tradizione Madhyamaka, come coloro che hanno trasmesso questi profondi insegnamenti.

Changkya Rölpai Dorjé critica anche alcuni studiosi suoi contemporanei che, intrappolati in un labirinto di espressioni come “vera esistenza”, cercano solo di negare qualche creatura con le corna, lasciando però intatta questa apparenza quotidiana di solidità. 

Il poema conclude con un’affermazione che le cose esistono, ma non nel modo di fatti crudi resi in dicotomie, sottolineando invece l’inseparabile legame di tenerezza e gioia tra i “genitori amorevoli”: vacuità e origine dipendente. L’autore termina con una danza di gioia estatica e un omaggio ai Tre Gioielli, riconoscendo la profonda ammirazione per la grande Via di Mezzo.

Al centro di “Riconoscere la madre” si trova la vacuità (śūnyatā), un concetto fondamentale nella filosofia buddhista Mahayana, in particolare nella scuola Madhyamaka. Essa non è intesa come un nulla assoluto, piuttosto come la mancanza di esistenza intrinseca o inerente in tutti i fenomeni. Questa natura ultima della realtà implica che nessun fenomeno esiste di per sé, indipendentemente da cause e condizioni. Il testo presenta la vacuità come la “vecchia madre” che il “bambino lunatico” (la mente) inizialmente non riconosce. Questa metafora suggerisce che la vera natura della realtà è sempre stata presente, ma la mente oscurata dall’ignoranza non è in grado di percepirla. La realizzazione della vacuità è presentata come la chiave per superare la sofferenza e raggiungere la liberazione dal ciclo dell’esistenza. Questa comprensione è il “cuore” della visione Madhyamaka, che mira a dissolvere le nostre errate concezioni di un sé e di fenomeni solidi e permanenti. La vacuità, quindi, non è una forma di nichilismo, ma la base per una comprensione più profonda e accurata di come la realtà effettivamente funziona.

Intimamente legato al concetto di vacuità è quello di origine dipendente (pratītyasamutpāda), spiegato nel poema attraverso la figura del “fratello”. L’origine dipendente si riferisce all’interconnessione e all’interdipendenza di tutti i fenomeni. Ogni evento e ogni entità sorge in dipendenza da altri eventi e altre entità; nulla esiste in modo isolato o indipendente. Nel contesto di “Riconoscere la madre”, l’origine dipendente serve come la ragione che stabilisce la mancanza di esistenza inerente. Comprendere come i fenomeni sorgono in dipendenza aiuta a smantellare la nozione di un’esistenza solida e auto-sufficiente, aprendo la strada alla realizzazione della vacuità. La relazione tra origine dipendente e vacuità è presentata come inseparabile; il vuoto è la natura stessa dell’origine dipendente, e l’origine dipendente è il modo in cui il vuoto si manifesta. Questa interconnessione non è solo un principio metafisico, ma anche il fondamento per la condotta etica nel Buddhismo, poiché riconosce la nostra intrinseca relazione con tutti gli esseri.

Il poema allude anche alla dottrina buddhista delle due verità: la verità convenzionale e la verità ultima. La verità convenzionale si riferisce al mondo delle apparenze così come lo percepiamo attraverso i nostri sensi e le nostre concettualizzazioni. A questo livello, le cose sembrano esistere in modo solido e indipendente. La verità ultima, invece, rivela la vera natura dei fenomeni come vuoti di esistenza inerente. “Riconoscere la madre” suggerisce che, mentre a livello convenzionale il mondo appare in un certo modo, la sua natura ultima è la vacuità. La “madre non ingannevole” simboleggia la vacuità che, per una mente che la realizza direttamente, esiste nel modo in cui appare, senza le distorsioni della nostra percezione convenzionale. Comprendere la distinzione tra queste due verità è essenziale per navigare nella realtà senza rimanere intrappolati in nozioni false di esistenza inerente.

La prospettiva filosofica che permea quest’opera è quella della Via di Mezzo (Madhyamaka), fondata da Nagarjuna e ulteriormente sviluppata da figure come Candrakirti. Sottolineando l’inseparabilità di vacuità e origine dipendente, il poema si allinea con i principi della scuola Prasangika Madhyamaka, che sostiene che la migliore comprensione della realtà si ottiene attraverso la confutazione delle posizioni altrui piuttosto che attraverso l’affermazione di una propria teoria metafisica. I riferimenti a Nagarjuna e Candrakirti nel testo sottolineano l’importanza di questi maestri per la comprensione della Via di Mezzo e della sua profonda visione della realtà.

La scelta della “madre” come metafora centrale è carica di significato all’interno della filosofia buddhista. Questa figura familiare e profondamente significativa è utilizzata per rappresentare concetti astratti come la vacuità e la saggezza. Nel Buddhismo Mahayana, il termine “madre” è spesso associato a Prajnaparamita, la “madre di tutti i Buddha”, che incarna la perfezione della saggezza, la comprensione trascendente della natura vuota della realtà, la fonte da cui sorgono tutti gli esseri illuminati. In questo senso, la “madre” nel poema di Changkya Rölpai Dorjé può essere interpretata come un simbolo della saggezza che realizza la vacuità, il cuore della visione Madhyamaka.7

Oltre alla connessione con Prajnaparamita, la metafora della madre attinge ai temi buddhisti più ampi della gentilezza materna e dell’interconnessione di tutti gli esseri. La tradizione buddista insegna che, a causa del ciclo incessante di nascita e morte, tutti gli esseri senzienti sono stati nostra madre in qualche momento del passato. Questa prospettiva promuove un senso di profonda compassione e gratitudine verso tutti gli esseri viventi. La “vecchia madre” del poema potrebbe quindi anche alludere a questa interconnessione universale e alla saggezza primordiale che ci è sempre stata vicina, anche se non riconosciuta. La figura del “padre”, menzionata brevemente nel testo, è stata interpretata come l’oggetto da investigare attraverso la saggezza della “madre” (vacuità).

Quest’opera ha avuto un impatto significativo e duraturo nel Buddhismo tibetano, in particolare all’interno della tradizione Gelug. La sua natura esperienziale e la sua poetica espressione della profonda filosofia Madhyamaka lo hanno reso un testo stimato per lo studio e la contemplazione. Sua Santità il Dalai Lama ha insegnato e commentato quest’opera, sottolineando la sua rilevanza per la comprensione della visione buddhista. Il testo è considerato un fondamento per la comprensione della scuola Madhyamika, e la sua concisa ma profonda esplorazione della vacuità e dell’origine dipendente continua a ispirare praticanti e studiosi. La sua capacità di rendere accessibili concetti filosofici complessi attraverso una metafora potente e personale ha contribuito alla sua duratura popolarità e alla sua influenza nel panorama del pensiero buddista tibetano.

L’autore

Changkya Rölpai Dorjé (1717-1786) emerge come una figura di spicco nel panorama del Buddhismo tibetano, distinguendosi non solo come un eminente studioso della tradizione Gelug ma anche come un influente personaggio politico e religioso alla corte imperiale cinese durante il regno dell’imperatore Qianlong. La sua vita e la sua opera rappresentano un crocevia di cultura e filosofia, segnando un periodo significativo di interazione tra il mondo tibetano e la dinastia Qing. Tra la sua vasta produzione letteraria, che spazia da opere di filosofia a guide di pellegrinaggio, spicca “Riconoscere mia madre: un canto esperienziale sulla Visione” (tibetano: tagur ama ngodzin), un testo conciso ma profondamente personale che esplora la natura ultima della realtà attraverso la lente della filosofia Madhyamaka. Quest’opera, spesso definita un canto sulla visione, offre una prospettiva intima e illuminante sui concetti chiave di vuoto (śūnyatā) e di origine dipendente (pratītyasamutpāda), utilizzando una potente metafora familiare per rendere accessibili idee filosofiche altrimenti astratte.

Nato nel 1717 in una famiglia di etnia mongola nella regione dell’Amdo, Changkya Rölpai Dorjé fu riconosciuto all’età di quattro anni come la reincarnazione del Secondo Changkya, Lobsang Chöden. Questo riconoscimento precoce lo collocò fin da subito all’interno di un lignaggio spirituale rispettato sia in Tibet sia in Mongolia. La sua educazione monastica iniziò nel prestigioso monastero di Gönlung Jampa Ling, uno dei quattro grandi monasteri Gelug nella regione dell’Amdo. Tuttavia, la sua vita prese una svolta inaspettata quando, in seguito a disordini politici e alla distruzione del suo monastero da parte delle truppe Qing nel 1724, il giovane Changkya fu condotto alla corte imperiale di Pechino come ospite. Questo evento, sebbene traumatico, lo pose in un ambiente di grande influenza culturale e politica, dove ricevette un’educazione completa che includeva lo studio delle lingue manciù, cinese e mongola, oltre agli approfondimenti filosofici e religiosi del Buddhismo tibetano.

Alla corte imperiale, Changkya Rölpai Dorjé strinse un forte legame con il principe Hongli, che in seguito divenne l’imperatore Qianlong. Questa relazione si rivelò estremamente significativa per entrambi. Changkya divenne il principale insegnante buddhista del Qianlong, consigliandolo su questioni religiose, artistiche, letterarie e persino diplomatiche. La fiducia che l’imperatore riponeva in lui fece di Changkya un importante intermediario tra la corte imperiale e le regioni dell’Asia interna, in particolare con i buddhisti di Amdo, Tibet e Mongolia. Nel corso della sua vita, Changkya compì diversi viaggi a Lhasa, dove ebbe l’opportunità di studiare con il Settimo Dalai Lama, Kalzang Gyatso, e di incontrare il Panchen Lama, consolidando ulteriormente il suo ruolo come figura chiave nel Buddhismo tibetano.

Oltre al suo ruolo politico e religioso, Changkya Rölpai Dorjé fu un prolifico studioso e autore. Supervisionò la monumentale impresa di traduzione del canone buddhista tibetano (Kangyur e Tengyur) in mongolo e manciù, un’opera che testimonia il suo impegno nel diffondere gli insegnamenti in diverse lingue e culture. Fu anche coinvolto nella fondazione di importanti istituzioni monastiche a Pechino, come il monastero Yonghegong, che divenne un centro di studi buddhisti tibetani per monaci mongoli, manciù e cinesi. 

Tra le sue numerose opere, che comprendono sette volumi dei suoi scritti, spicca “Il meraviglioso ornamento del monte Meru” (tibetano: Grub-mtha’ thub-bstan lhun-po’i mdzes-rgyan), un classico testo sulla presentazione dei sistemi filosofici indiani buddhisti e non buddhisti.Questa opera, nota per la sua chiarezza e sistematicità, rimane un testo fondamentale per lo studio della filosofia buddhista tibetana. La sua vita e le sue opere riflettono un’eccezionale capacità di navigare tra il mondo spirituale e quello secolare, lasciando un’impronta indelebile nella storia del Buddhismo tibetano e delle relazioni tra Tibet e Cina.

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