La parola sanscrita anātman, “non-sé” o “assenza di sé” o, più in generale, “insostanzialità” è il terzo dei “tre marchi” (trilaksanā) dell’esistenza, insieme all’impermanenza (anitya) e alla sofferenza (duḥkha).
Questo concetto è una delle intuizioni chiave del Buddha ed è fondamentale per l’analisi buddhista della qualità composta, o composita, (saṃskṛta) dell’esistenza: poiché tutte le cose composte sono il frutto (phala) di una specifica serie di cause (hetu) e condizioni (pratyaya), sono quindi prive di qualsiasi substrato permanente.
Nell’analisi dei sūtra sull’esistenza, si dice che la “persona” (pudgala) sia un prodotto di cinque aggregati (skandha): materialità (rūpa), sensazioni fisiche (vedanā), percezione (saṃjñā), impulsi (samskara) e coscienza (vijñāṇa), che insieme comprendono la totalità dell’esistenza fisica, mentale ed emotiva dell’individuo.
Ciò che nel linguaggio comune viene chiamato persona è un continuum (samtana) imputato alla costruzione di questi aggregati, ma quando questi aggregati vengono separati al momento della morte, anche la persona svanisce. Questa relazione tra la persona e gli skandha è chiarita nella famosa similitudine del carro del Milindapañha: un carro è composto da varie parti costituenti, ma se quel carro viene scomposto nelle sue parti, non rimane alcun senso di “carro”. Così è per la persona e le sue parti costituenti, gli skandha.
Il Buddha è rigorosamente contrario a qualsiasi analisi dei fenomeni che imputi la realtà di una persona: quando un interlocutore gli chiede, ad esempio, “Chi sente?”, il Buddha rifiuta la domanda in quanto concepita erroneamente e la riformula in termini di condizionalità, cioè “Con cosa come condizione si verifica la sensazione?” (“Contatto sensoriale” [SPARŚA] è la risposta).
Il Buddhismo rifiuta quindi qualsiasi nozione di un’anima eterna e permanente che sopravviva alla morte, o che trasmigri di vita in vita; piuttosto, così come possiamo imputare una continuità convenzionale alla persona nell’arco di una vita, così questa stessa continuità può essere imputata nell’arco di diverse vite.
Il continuum dell’azione e reazione karmica assicura che l’ultimo momento di coscienza nella vita presente serva come condizione per il primo momento di coscienza nella vita successiva. La vita successiva non è quindi né uguale né diversa dalla vita precedente; invece, è causalmente correlata a essa. Per questo motivo, qualsiasi esistenza specifica, o serie di esistenze, è governata dalle cause e condizioni che la creano, rendendo la vita fondamentalmente al di là dei nostri tentativi di controllarla (un’altra connotazione di “non-sé”) e quindi indegna come oggetto di attaccamento.
Vedere questa mancanza di sé nelle cose composte genera un senso di “pericolo” (ādīnava) che catalizza l’aspirazione a cercare la liberazione (vimoksha). Pertanto, comprendere questo marchio di anātman è l’antidoto cruciale (pratipakṣa) all’ignoranza (avidyā) e la chiave per la liberazione dalla sofferenza (duḥkha) e dal continuo ciclo di rinascita (saṃsāra).
Sebbene la nozione di anātman sia applicata alla nozione di persona nel buddhismo tradizionale, nelle scritture del Prajñāpāramitā e nella più ampia tradizione Mahāyāna la connotazione del termine viene estesa per includere anche il “non-sé dei fenomeni” (dharmanairātmya).