La compassione, cos’è e cosa non è

La compassione, cos’è e cosa non è

Prima di parlare di come sviluppare la compassione, le tradizioni buddhiste ritengono importante dissipare dubbi od opinioni errate su cosa essa sia. Ecco alcuni esempi di cosa non è la compassione.

1. La compassione non implica che anche noi dobbiamo soffrire  

Alcune persone in Occidente amano spiegare la compassione in base alla sua etimologia: passione si riferisce alla sofferenza; com significa con. Quindi, compassione significa soffrire con qualcuno. Di conseguenza, per essere compassionevoli, dobbiamo soffrire insieme agli altri quando soffrono. Ma questa non è compassione, è sofferenza personale. Se veniamo sopraffatti e sconvolti dalla sofferenza altrui, la nostra attenzione si è spostata dalla sofferenza del prossimo alla nostra. Di conseguenza, siamo incapaci di rispondere con compassione alla sofferenza altrui a causa della nostra stessa sofferenza.

Facciamo un esempio: mi trovavo in una stanza d’ospedale con uno dei miei studenti che stava morendo. C’erano anche sua moglie, i suoi due figli e il suo migliore amico. Tutti gli volevano un gran bene, ma erano talmente devastati dal dolore e dall’e lacrime’angoscia – la loro, all’idea che presto lo avrebbero perso per sempre – che non erano in grado di aiutarlo in quegli ultimi istanti della sua vita. Ero commossa per la sua sua situazione e quella dei suoi cari, ma la mia mente era calma mentre restavo al suo capezzale, cercando di incoraggiarlo ad avere aspirazioni e pensieri virtuosi per la sua prossima rinascita e ricordandogli i Buddha, i bodhisattva e i suoi maestri.

Quindi, sebbene l’empatia sia un preludio alla compassione, non sono la stessa cosa e anche i metodi per coltivarle sono diversi. Nella nostra cultura abbiamo l’idea – forse legata a quella cristiana di Gesù che muore sulla croce per espiare i peccati dell’uomo – che per essere veramente compassionevoli dobbiamo soffrire e che qualsiasi tipo di pace mentale, per non parlare della felicità in altri aspetti della vita, indica che siamo egoisti. Questa nozione, però, è ben lontana dal significato di compassione così come è stata intesa dal Buddha.

2. La compassione non è pietà 

La compassione non è guardare dall’alto in basso chi soffre, come se fosse responsabile della propria condizione. Se siamo veramente compassionevoli, non ci mettiamo al di sopra del prossimo. Aiutiamo le persone semplicemente perché la sofferenza è indesiderabile per chiunque: non importa chi stia soffrendo, la sofferenza dovrebbe essere eliminata. Chi dà e chi riceve compassione sono uguali. Non c’è spazio per pensieri come “Oh, povera creatura. Mi dispiace tanto per te. Come hai fatto a metterti in una situazione così difficile? Ma non preoccuparti. Io, il “superiore compassionevole”, sono qui per salvarti. Dovresti sentirti grato per il mio aiuto”. Questo atteggiamento è condiscendenza, non compassione. La vera compassione non vuole nulla in cambio, nemmeno un grazie, perché l’atto stesso di aiutare è la “ricompensa”. Ci sentiamo appagati quando riusciamo a contribuire al benessere di qualcuno; non vogliamo o abbiamo bisogno di altro.  

Il saggio buddhista dell’VIII secolo Śāntideva (1999) fa l’esempio della mano che estrae una spina da un piede. La mano si abbassa e rimuove la spina. Questo è quanto. La vita continua. Non ci sono drammi, come “Io, la grande e gloriosa mano, sono così compassionevole da aiutare te, stupido piede, che non hai fatto caso a dove stavi andando. Ricordati della mia gentilezza; mi devi un favore, assicurati di ripagarlo”. Perché la mano aiuta spontaneamente il piede? Perché sono parte dello stesso organismo. Si aiutano a vicenda per il bene dell’organismo. Allo stesso modo, ognuno di noi è parte dell’insieme più grande di tutti gli esseri senzienti, quindi la compassione per gli altri e l’aiuto che offriamo loro non sono un extra.  

Il Dalai Lama spesso fa riferimento ai formicai e agli alveari, facendo notare che ogni insetto coopera per il bene del gruppo e in questo modo tutti sopravvivono e prosperano. Noi esseri umani abbiamo un’intelligenza superiore a quella degli insetti, ma ne abusiamo per creare armi sempre più potenti e sofisticate per farci del male a vicenda. Dobbiamo invece usare la nostra intelligenza per portare beneficio l’uno dall’altro.

3. La compassione non è compiacenza 

La compassione non implica che ci trasformiamo in persone accondiscendenti con tutti, in qualcuno che apparentemente si preoccupa così tanto del benessere degli altri da fare di tutto per alleviarne le sofferenze e renderli felici. Sebbene sembri un’azione compassionevole, la motivazione potrebbe non esserlo e il Buddhismo ritiene che la nostra motivazione sia il fattore che determina il valore e la virtù delle nostre azioni. Le persone compiacenti si mettono al servizio degli altri perché vogliono essere accettate e apprezzate. Desiderano che gli altri pensino bene di loro e li lodino. Infatti, se lavorano duramente per aiutare il prossimo ma non ricevono alcun apprezzamento o lode ne sofforno. Anche in questo caso, la mente è impregnata di egocentrismo; la vera compassione si concentra sugli altri.  

Compassione non significa fare indiscriminatamente ciò che gli altri vogliono o gradiscono per ottenerne affetto o approvazione. Piuttosto, in alcuni casi, la compassione richiede di mettere a rischio una relazione o la nostra buona reputazioneper garantire un beneficio a lungo termine. Ad esempio, quando era adolescente, Joe si mise ripetutamente nei guai con la polizia. Ogni volta sua madre andava in tribunale, pagava una multa e chiedeva al giudice di lasciarlo tornare a casa, cosa che il giudice faceva. Ma un giorno la donna disse al giudice: “Ho cercato di aiutarlo, ma non mi ascolta. Giudice, lo tenga in custodia. Lo mandi nel carcere minorile”.

Inizialmente Joe era furioso perché sua madre non lo aveva salvato ancora una volta ma in seguito, da solo al riformatorio, non poté che riflettere sul perché si trovasse lì. Capì che se avesse continuato a comportarsi male, la sua situazione non sarebbe mai cambiata. “Ho dovuto toccare il fondo per capire che sono il solo responsabile delle mie azioni e della mia vita. Mia madre, rifiutandosi di pagare la cauzione, è stata estremamente gentile”.

4. La compassione non è risolvere i problemi al posto degli altri.  

La compassione non implica risolvere i problemi degli altri. Alcune persone sentono la responsabilità di salvare gli altri dalle loro angosce. Altri vogliono dimostrare quanto sono compassionevoli risolvendo i problemi altrui. Ma questa non è necessariamente la risposta migliore ai loro bisogni. C’è chi, in situazioni di sofferenza, vuole semplicemente che qualcuno lo ascolti con empatia e compassione; non vuole che il Signor o la Signora Aggiustatutto si intrometta nella sua vite, nei suoi affari, cercando di imporgli le sue idee nel tentativo di far tornare tutto a posto. A volte il Signor o la Signora Aggiustatutto diventano prepotenti e invadenti, mancando di rispetto all’intelligenza e alla capacità dell’altra persona di risolvere i propri problemi o di imparare dai propri errori. Questo spesso provoca ulteriore confusione e tensione.

5. La compassione non ci rende deboli.

Alcune persone credono che la compassione ci renda deboli e vulnerabili. Siamo così gentili da essere d’accordo con tutto ciò che un’altra persona dice o fa, perché non vogliamo creare attriti o metterla in imbarazzo, criticando le sue azioni inappropriate. Abbiamo così tanta “compassione” per il colpevole che non cerchiamo di fermare le sue azioni nefaste o di ritenerlo responsabile del male che infligge agli altri.

Una donna maltrattata pensa: “Perdono mio marito. È gentile, ma ogni tanto perde le staffe. Ho compassione per lui. Cambierà se avrò pazienza”. Nel frattempo, l’abuso continua. Questo modo di pensare è follia, non compassione. L’azione compassionevole richiede una forza interiore straordinaria. Dobbiamo essere in grado di sopportare le difficoltà senza scoraggiarci e lasciare la porta aperta se al momento la persona che stiamo cercando di aiutare rifiuta l’aiuto. Siamo disposti a rischiare la nostra reputazione e le nostre relazioni per fare ciò che è meglio per l’altra persona a lungo termine.

Ad esempio, Henry, il fratello di Susan a cui lei è molto affezionata, ha un problema di abuso di sostanze. Henry le chiede dei soldi, ma lei, sapendo che li userà per comprare droghe o alcol, rifiuta e si offre di accompagnarlo in un centro di riabilitazione e di coprire i costi del suo soggiorno. Henry si sente offeso e accusa Susan di giudicarlo ingiustamente e di proiettare su di lui colpe che non ha. Si arrabbia, esce dalla stanza e dichiara che non le parlerà mai più. Quando il loro aiuto viene rifiutato, molte persone si sentono arrabbiate, scoraggiate e incomprese.

Reagiscono con rabbia e decidono di non parlare più con il loro parente o amico. Ma Susan si è allenata nella compassione e ha la saggezza e la forza interiore per capire che la risposta di Henry era alimentata dall’ignoranza e dall’attaccamento. Ha controllato la sua motivazione prima di parlare e sa che era compassionevole, non manipolatoria. Capisce che la rabbia del fratello non ha nulla a che fare con lei, quindi non prende le sue parole sul personale. Piuttosto, si allontana con calma e lascia spazio a Henry. In seguito, quando lui si rende conto del suo problema di abuso di sostanze e le chiede aiuto, lei lo aiuterà. Non c’è nessun “te l’avevo detto”, né “guarda come sono gentile ad aiutarti dopo che mi hai trattato così male”.

6. La compassione non è efficace nelle situazioni di conflitto

Alcune persone sostengono che la compassione in situazioni di conflitto sia è inefficace e che una “legittima e giusta rabbia” sia la risposta all’ingiustizia e all’abuso. Tuttavia, la rabbia – giusta o meno – si basa sull’esagerazione della negatività dell’altra parte. Quando ero una studentessa universitaria e partecipavo a una protesta contro la guerra del Vietnam, spesso stavamo in fila di fronte alla polizia in tenuta antisommossa. Una volta, una persona accanto a me raccolse un sasso e, urlando contro la polizia, lo lanciò più forte che poteva. In quel momento, qualcosa nella mia mente è scattato e ho pensato: “La sua mente è esattamente come quella delle persone contro le quali sta protestando: i funzionari che stanno dietro alla guerra”.

Entrambe le parti avevano la mente del “noi contro loro”, entrambe pensavano che la loro rabbia fosse giustificata e necessaria, entrambe cercavano di danneggiare l’altra parte. Entrambi i popoli, quello tibetano e quello palestinese, hanno perso la loro terra intorno al 1950. I palestinesi hanno risposto con la “giusta rabbia”. Il Dalai Lama ha ripetutamente detto ai tibetani e ai loro alleati occidentali di non odiare i comunisti cinesi e di non essere mai violenti o di fare loro del male. Sono passati anni.

Molte persone sono morte a causa di dirottamenti, assassinii e proteste violente nella lotta dei palestinesi per l’autonomia. Pochissimi cinesi sono morti nella lotta dei tibetani. Quando il primo tibetano si è auto-immolato a Delhi, il Dalai Lama ha lodato il suo desiderio di autonomia per il Tibet, ma ha parlato senza mezzi termini ai tibetani, consigliando che è meglio vivere per il Tibet che morire per il Tibet. In tutte queste situazioni, agire con compassione richiede non solo il pensiero di preoccuparsi più per l’altro che per noi stessi, ma anche una mente chiara e non offuscata dai nostri pensieri confusi. La soluzione a tutti questi ostacoli è la consapevolezza delle nostre azioni, la consapevolezza introspettiva che controlla le nostre motivazioni e la meditazione per sviluppare la saggia compassione.

Tradotto da Compassion manifesting in skillful means.

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Dana, la generosità, è la prima delle sei paramita, o perfezioni che un bodhisattva coltiva sulla via dell’illuminazione perché è il fondamento su cui si sviluppano tutte le altre virtù.
La generosità offre molti benefici:
 
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