Agli albori del Buddhismo, in India, il Buddha insegnò con grande enfasi che era necessario rompere con le convenzioni sociali a cui tutti erano soggetti. La società del suo tempo non era l’India illuminata, bella, splendente e raffinata che conosciamo oggi, emersa gradualmente dopo secoli di oppressione coloniale.
L’India, al tempo del Buddha, era un paese militarizzato, come l’antica Grecia, l’Iran o l’Egitto, un paese fatto di città-stato con eserciti e armamenti, con un rigido sistema di caste, dove c’era schiavitù e sfruttamento, dove si uccideva, combatteva, conquistava.
Alcuni sovrani stavano accumulando ricchezze e poteri spropositati, soprattutto gli appartenenti alla casta dei governanti-guerrieri. Buddha stesso nacque come sovrano guerriero e si prevedeva che avrebbe persino potuto conquistare l’India intera, se solo avesse rivolto la sua attenzione al potere mondano, alla ricchezza e al dominio.
Fortunatamente per il mondo, non divenne il primo Alessandro Magno della storia, ma si dedicò al suo mondo interiore, alla conquista di se stesso e della realtà.
Nell’India del suo tempo, nell’Eurasia di allora, Buddha comprese che prima di tutto doveva insegnare alla gente l’individualismo: “Perché dovreste vivere la vostra vita combattendo e lottando, faticando e producendo, schiavizzando il prossimo o diventando voi stessi schiavi? Perché non abbandonate questo mondo convenzionale? Perché non realizzate semplicemente voi stessi?”.
Provate a mettervi nei panni del Buddha di allora. Eravate un essere umano. Ve ne siete andati dal vostro palazzo e vi siete seduti sotto un albero. Avete sofferto. Avete lottato. Avete ragionato. Avete meditato. Siete arrivati ad una profonda comprensione della beatitudine essenziale di ogni elemento, cellula e particella della vita, riuscite a vedere la beatitudine e la bellezza nelle rocce, nella terra, nei vulcani e nelle stelle. E poi aprite gli occhi e vedete tutti intorno a voi che non fanno altro che correre in giro all’impazzata, nella folle ricerca di beni effimeri, di potere e di dominio, tutte conquiste che avrebbero perso quando, prima o poi, sarebbero morti. E anche dopo la morte avrebbero continuato a soffrire, per le azioni negative compiute per ottenere quel potere e quel dominio, anche quando il potere era la conoscenza. Moriranno tutti e si dimenticheranno di aver causato un disastro dopo l’altro e rinasceranno, diventando di nuovo la preda dei miraggi di qualche mondo futuro.
Se foste stati il Buddha, a quel tempo, anche voi vi sareste chiesti: “Come faccio a spezzare questi schemi, queste convenzioni, questa gabbia sociale collettiva in cui tutti sono imprigionati e che dice loro come comportarsi, che dice loro che è Dio a volere che sia così, che non hanno altra scelta che seguire una strada che qualcun altro ha tracciato per loro? Come faccio a spiegargli che il loro cuore è il motore della beatitudine, il loro cervello lo strumento per conquistare una profonda saggezza?”
Ebbene, anche voi avreste puntato sull’individualismo, sulla libera scelta individuale. Avreste detto: “Non seguite quelle idee convenzionali, tradizionali e religiose. Non seguitele più. Vi stanno solo intrappolando in schemi inventati da qualcun altro. Voi stessi potete essere Dio. Siete davvero questo, in realtà. Voi, proprio voi, siete la realtà. Voi, proprio voi, siete buddha. Quindi, non adeguatevi più a quelle imposizioni. Allontanatevene. Cercate la vostra realtà. Guardate dentro voi stessi con consapevolezza. Guardate dentro di voi con il buon senso e il ragionamento. Riducete al minimo le azioni negative e non fate del male agli altri esseri. Rendetevi utili. Oppure, visto che ancora non sapete come esserlo perché ancora non vedete chiaramente, cercate almeno di smettere di nuocere”.
E poi, il Buddha fece una cosa meravigliosa. Si inventò il sistema monastico perché gli uomini e le donne potessero sostenersi a vicenda in questo processo di liberazione dalle convenzioni sociali. E scelse proprio l’India per questa rivoluzione perché l’India era, all’epoca, il paese più ricco dove la gente poteva permettersi di sostenere chi sceglieva di vivere al di fuori della collettività, dove tutti erano abbastanza generosi da sostenere gli anticonformisti, gli individualisti.
Così, Buddha inventò gli ordini monastici per uomini e donne, il Sangha, la comunità dei rinuncianti, di coloro che si impegnavano a trascendere il mondo ordinario insieme ai loro sostenitori laici. E il sistema prese piede perché la gente lo voleva e lo apprezzava e capiva intuitivamente che doveva esistere realmente una felicità superiore che poteva in qualche modo essere ottenuta.
Nessuna religione può conquistarci senza prometterci quel genere di felicità in qualche aldilà, in cielo, in paradiso o in un’altra dimensione. Tutte le religioni lo fanno: quelle sciamaniche, indigene, tribali e le grandi tradizioni ancor oggi diffuse e praticate. Persino l’umanesimo secolare fa questa promessa, anche se si tratta di una sorta di oblio senza stress.
Ma Buddha scoprì la felicità più alta possibile per tutti nel “qui e ora” e creò un’istituzione che celebrava questa possibilità, diventando la porta d’accesso alla felicità della società tutta.
Era come se il Buddha avesse creato dei buchi nel formaggio della società e i buchi erano il Sangha, la comunità, l’istituzione di coloro che rinunciano. Monaci e monache sarebbero stati nutriti gratuitamente dalla comunità laica perché mantenessero in vita il loro corpo e dedicato tutta la loro energia vitale alla liberazione, cercando la libertà, non dovendo più produrre nulla per nessuno, non facendo più nessun lavoro agricolo, non facendo nessun lavoro militare, non facendo nessun lavoro sociale. Questo almeno agli inizi. Da principio, infatti, il Buddha evitò in modo molto intelligente e pragmatico di sfidare eccessivamente le convenzioni culturali e sociali; ma le sfidò comunque quanto bastava per guadagnare spazi per l’individuo.
Il Buddha non ordino ai suoi ex-colleghi re guerrieri: “È meglio che tu la smetta di fare questo, non devi più comportarti così”. Ma quando erano loro ad andare a fargli visita suggeriva: “Sarebbe meglio se non facessi la guerra, se non commettessi più alcuna violenza”. Quella che forniva era una lista di principi etici – non uccidere, non rubare, non avere una cattiva condotta sessuale, non mentire, e così via – delle raccomandazioni piuttosto che dei comandamenti. E certo non si aspettava che i re li adottassero subito.
Circa quattrocento anni dopo che il Buddha aveva lasciato il suo corpo, l’istituzione del Sangha aveva prodotto molte, molte persone libere che, a loro volta, avevano cominciato a rendere possibile una maggiore libertà sia per i laici sia per i monaci, intervenendo più attivamente nella società, nella vita quotidiana degli indiani.
Fu allora che gli insegnamenti meno individualistici e più sociali – che il Buddha aveva pacatamente seminato in precedenza con pochi discepoli – divennero utili e la gente cominciò a diffonderli come una sorta di “vangelo sociale” chiamato Mahayana, il veicolo universale, o il veicolo della società.
Le istituzioni monastiche cominciarono a raggiungere e di fatto a cambiare il modo di vivere delle comunità, propagando la dimensione sociale dell’insegnamento del Buddha e trasformando di fatto l’etica dell’India.
Cominciarono a diffondersi il devozionalismo, che travalicava il sistema delle caste; l’universalismo, che bypassava le distinzioni di genere; il vegetarismo, che minava il sistema dei sacrifici degli animali. Cominciarono a sorgere il pacifismo e la nonviolenza, un duro colpo per il sistema militaristico. E l’India crebbe e avanzò enormemente, economicamente e culturalmente, consentendo la fioritura della cultura più gloriosa del mondo antico, una cultura in cui anche la ricerca del piacere si sarebbe tradotta in un’arte estremamente sofisticata.
La ricerca del benessere creò le leggendarie ricchezze dell’India che attrassero prima Alessandro Magno e, più tardi, tutti i tipi di conquistatori dell’Asia centrale; attirò i musulmani, fece sbavare Colombo quindici secoli dopo e infine nuovi conquistatori europei.
Quell’enorme ricchezza cominciò a svilupparsi proprio in quel periodo e quando ricchezza e sviluppo sociale iniziarono ad espandersi sempre di più, alcuni decisero di non poter attendere finché la società intera raggiungesse la liberazione, sentivano di non poter aspettare di ottenere la propria illuminazione per molte, troppe vite. Decisero allora che avrebbero raggiunto questa perfetta libertà e questa perfetta capacità di aiutare gli altri in un’unica vita. E questo fu l’inizio della tradizione tantrica, che da principio fu strettamente esoterica.
Chi seguiva il sentiero esoterico, viveva ai margini, defilato; erano i maghi, i siddha, gli adepti. Ma dopo circa cinquecento anni, i re erano diventati più gentili, relativamente parlando, addomesticati da una ricchezza enorme e da un piacere raffinato. Le loro abitudini bellicose avevano perso ogni attrattiva, il livello di violenza in India era diventato relativamente modesto. Così i maestri tantrici riemersero in pubblico, perché a quel punto in tanti erano pronti per una realizzazione più immediata; non c’era più bisogno di mantenere segreta la loro conoscenza.
Avvenne allora, collettivamente, l’esplorazione profonda dell’inconscio, il confronto con il lato oscuro, l’elevazione del potere spirituale della donna e le arti sublimi della trasformazione, feroce e gentile, che costituiscono il Vajrayana, il veicolo adamantino, il Tantrayana, il veicolo del “continuum”: queste tecnologie spirituali stupefacenti sono state offerte con sicurezza a una utilità più generale.
Queste sono state le tre tappe principali attraverso le quali si è evoluto il Buddhismo nella società indiana: individualismo, universalismo ed esoterismo. Le risposte al risveglio si sono sviluppate attraverso l’interazione con la cultura indiana, con il popolo indiano. (fine prima parte)
Robert Thurman – The Jewel Tree of Tibet: The Enlightenment Engine of Tibetan Buddhism